Partito Gay? NO, grazie. Prenderlo in culo è una questione privata, non politica

È davvero utile l’istituzione del Partito Gay?

Da omosessuale dichiarato e risolto, ritengo che le priorità per un cittadino come me siano ben altre e che non si esauriscano nei diritti gay. Il vero problema della lobby gay è la pretesa di trasformare l’omosessualità in omosessualismo, il voler trasformare un fatto privato e personale quale è il prenderlo in culo in uno stile di vita assolutista. Questo partito si arroga il diritto di voler rappresentare tutte le persone omosessuali in quanto tali, come se queste non avessero priorità ulteriori e ben più cogenti della propria condizione sessuale e affettiva. C’è gente senza casa, c’è gente senza lavoro, ci sono laureati costretti ad andare all’estero, subiamo continui attacchi alla nostra cultura, alla nostra nazione e per queste persone tutto sembra continuare a ruotare esclusivamente attorno alla propria condizione di omosessuali.

La nascita di questo partito è il grave sintomo del fatto che i gay continuano a volersi autoghettizzare, autoconfinare, automassificare: tra poco per prenderlo in culo avremo bisogno della tessera di partito. Richiedono (giustamente) diritti e libertà ma poi sui social network inneggiano alla violenza contro personalità dogmaticamente assunte come omofobe e per farlo utilizzano riferimenti che loro stessi, in altri contesti, riterrebbero discriminatori. Poco importa se si comportano esattamente mettendo in pratica, quegli stessi metodi, atteggiamenti e modi di pensare fascisti, che loro stessi si propongono di contrastare: lo squadrismo, l’ostracismo, la persecuzione, la messa al bando, il boicottaggio, la propaganda. La filosofia gender esige la creazione di nuove nomenclature, basate sulla ricerca scrupolosa di punti di distinzione allo scopo di creare una comunità intorno alla stessa diversità ed è così che spuntano come funghi le classificazioni di: pansessuale, polisessuale, non binario, agender, bigender, nogender, genderqueer, genderfluid e così via. Si arriva a violentare la grammatica italiana con la stronzata di scrivere “tutt@”  e “tutt*” in luogo di “tutti”, nonostante nella nostra grammatica il plurale maschile copra entrambi i generi. Si pretende che una semplice regola grammaticale sia assunta a discriminazione di genere, patetica forzatura di gran lunga significativa della strumentalizzazione che si sta facendo dell’eguaglianza.

La scure arcobaleno del Gender è in agguato pronta a tagliare le gole di chi si macchia di presunta omofobia e poco importa se si tratti di una battuta o un riferimento innocente. Prima si pretende (giustamente) di normalizzare il concetto di omosessualità, ma poi ci si lamenta se questa diventa un normale riferimento quale segno distintivo. È così che in nome del contrasto all’omofobia, si innesca la pressione psicologica opposta, quella che costringe le persone, per timore reverenziale, a sacralizzare la categoria e a cristallizzarla: LGBT vuol dire essere intoccabili, esenti da critiche, opinioni, battute, riferimenti e menzioni. Ma soprattutto è ora di smetterla con il cliché che essere gay vuol dire avere un debito con la sinistra, un peccato originale che non puoi scontare. Se sei gay, al Gay Pride devi cantare Bella Ciao (motivo per il quale ho deciso di non prendervi più parte). Poco importa poi se i gay che Mussolini mandava alle Tremiti e quelli che Hitler mandava nei campi di concentramento siano numericamente inferiori a tutti i gay vittime di persecuzione in URSS durante il regime stalinista e ai più recenti lager istituiti da Che Guevara. Senza contare, naturalmente, come se la passano oggi (non settant’anni fa!) i gay a Cuba, in Corea del Nord, in Cina, in Vietnam e in Laos, tutti paesi orgogliosamente comunisti. Eh già, perché mentre il tanto pericoloso Fascismo è scomparso ovunque nel mondo da più di quarant’anni il comunismo esiste ancora. Il catechismo della dittatura delle minoranze impone una forma di libertarismo biopolitico, ossia l’idea dell’equivalenza tra desideri e diritti per cui ogni tipo di repressione è sbagliata, è vietato vietare: una madre che dica “no” al figlio che vuole la Barbie, teme di passare per autoritaria, anzi regalare bambole ai maschietti e pubblicare il video su Facebook rende genitori modello; un genitore che osi pronunciarsi contro l’abolizione della festa del papà o della mamma, nella classe di suo figlio, pensa di passare per prepotente, insensibile, egoista. A questo punto scatta allora il ricatto morale: se si è contrari al buonismo, se si è indisponibili al permissivismo e alla munificenza all’ingrosso, si rischia di finire alla berlina, esposti alla disapprovazione di tutti. In nome dell’inclusività a tutti i costi si sacrificano identità e tradizioni, si discrimina la totalità per favorire il singolo.

Lo status politico di vittima assicura a chi riesce a ottenerlo una specie di passaporto diplomatico di cittadino “straordinario”, non necessariamente collegato a situazioni di minaccia o reale oppressione. Uno status che comporta, in quanto tale, una serie di benefici, non solo economici, ma anche legali e che di fatto rende le persone diseguali di fronte alla legge. Il cerchio si chiude e chi non vuole guai è costretto ad autocensurarsi e a usare le parole della neolingua e aderire al Partito Gay. Oggi il peggior fanatismo è esercitato dalla lobby gay contro la maggioranza della comunità: è il fascismo dell’antifascismo. La discriminazione più opprimente e intimidatoria è etico e non sessuale; è quella culturale, politica, ideologica di una “razza eletta” rispetto al popolaccio che sceglie di pancia il sovranismo ed è, perciò, bollato come “naturaliter razzista“. Ecco allora che il nazionalismo, se italiano è un deprecabile sovranismo tendente al razzismo, ma se è europeo diventa un lodevole segno di apertura mentale.

L’inclusione a tutto campo porta al relativismo etico con la conseguenza illogica che, partendo dalla premessa astratta per cui tutte le idee e i comportamenti sono uguali, si arriva alla conseguenza concreta che esiste un solo modo politicamente corretto di parlare, vestirsi e comportarsi: quello che – secondo i vertici del Partito – risulterebbe non offensivo per gli altri! L’uomo occidentale è educato alla scuola del conformismo, piagato da social network, malato di terzomondismo ideologico, al passo col bene, col sorriso e con l’empatia universale: ecco perché l’unico modo per uscire da questo incubo a tinte arcobaleno è con una sana dose di verismo. Imparare a ribellarsi al politicamente corretto, sfidare la disapprovazione generale per usare parole negate è, quindi, un inizio di addestramento permanente al non conformismo, al coraggio.

Una concreta speranza è costituita da quelle generazioni che, cresciute sotto il regime culturale sinistro-salottiero-altoborghese hanno ormai maturato, come me, una sorta di impermeabilità all’influenza conformista di questa ideologia e sono diventate depositarie di una forma di scetticismo di fondo verso la retorica del neo-progressismo.

Quando ci libereremo da questa cappa e da questa cupola ideologico-mafiosa? Qui il problema si sposta nell’altro campo: l’assenza di alternative, la mancata elaborazione di strategie, culture, linguaggi, il silenzio e la rassegnazione. Dopo il rigetto urge il progetto. Allora l’impressione è che sia una grande battaglia di pensiero combattuta per finalità anche condivisibili, ma con armi del tutto inadatte. Una guerra mondiale fatta con i soldatini.

Questo articolo è tratto da:

Il golpe del politicamente coretto, un libro di Francesco Mangiacapra

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