Che il contrasto all’omofobia e, in generale, al bullismo e alla violenza siano una priorità, non c’è ombra i dubbio. Il dubbio, legittimo, può esserci, invece, su come sia impostata la legge Zan.
In molti mi avete chiesto perché io sia contrario a questa legge.
Il problema è la narrativa sociale che spesso le minoranze svantaggiate tendono a creare. Si è alimentata una mentalità basata sull’esasperazione dei diritti, proprio da parte delle minoranze che si sono viste incoraggiate a trasformare il loro svantaggio in un vantaggio, a brandirlo come un’arma, a pretendere che gli altri, tutti gli altri, i “fortunati”, si inchinino davanti a loro, si proclamino colpevoli o, comunque, si sentano in difetto, in debito e dunque in obbligo di “risarcirle” indefinitamente.
Il problema è il tentativo di trasformare l’omosessualità in omosessualismo, invocando la solidarietà istintiva di altri consimili. Lo status politico di vittima assicura a chi riesce a ottenerlo una specie di passaporto diplomatico di cittadino “straordinario”, non necessariamente collegato a situazioni di minaccia o reale oppressione. Uno status che comporta, in quanto tale, una serie di benefici, non solo economici, ma anche legali e che di fatto rende le persone diseguali di fronte alla legge. Il cerchio si chiude e chi non vuole guai è costretto ad autocensurarsi e a usare le parole della neolingua. Se si fa finta di glissare sul colore della pelle, sul Paese di provenienza, sulle abitudini di vita, sull’alterità, allora si annienta l’individuo e si rende ogni relazione interpersonale surrettizia e fasulla, perché nella massa indifferenziata, dove nessuno è portatore di identità e diversità, non c’è vera libertà: siamo tutti schiavi.
La legge non può prevedere discriminazioni di serie A e di serie B. Il codice penale già condanna ogni forma di discriminazione: cristallizzare l’omofobia non serve a combattere la discriminazione ma solo a indurre terrorismo psicologico.
La scure arcobaleno del Gender è in agguato pronta a tagliare le gole di chi si macchia di presunta omofobia e poco importa se si tratti di una battuta o un riferimento innocente. Prima si pretende (giustamente) di normalizzare il concetto di omosessualità, ma poi ci si lamenta se questa diventa un normale riferimento quale segno distintivo. È così che in nome del contrasto all’omofobia, si innesca la pressione psicologica opposta, quella che costringe le persone, per timore reverenziale, a sacralizzare la categoria e a cristallizzarla: LGBT vuol dire essere intoccabili, esenti da critiche, opinioni, battute, riferimenti e menzioni. Che nessuno compri Scavolini finché non offre la testa della Cuccarini! È pandemia: aziende, imprenditori, lavoratori e interi marchi sono messi al bando finché non si scusano e ritrattano. Va tutto bene, però, se per una necessità catartica gli stessi gay sui social network inneggiano alla violenza contro personalità dogmaticamente assunte come omofobe e se per farlo utilizzano riferimenti che loro stessi, in altri contesti, riterrebbero discriminatori: così denigrare chi fa uso eccessivo della chirurgia plastica è offensivo e lesivo della libertà dei trans di esibire le tette al vento ai Pride, ma prendere per il culo chi ricorre al bisturi diventa plausibile se utilizzato come motivo per screditare la Santanchè.
Le idee non possono essere espresse senza parole. In tempi di buonismo ecumenico il vero pericolo è l’aggressività inespressa. A forza di reprimere si rischia l’esplosione efferata e violenta. Infatti è la politica dei buoni sentimenti che produce, nell’ombra, sette sataniche e integralismi.
Ci hanno provato i regimi totalitari a esercitare l’epurazione linguistica, e ci provano oggi a esercitare la manipolazione, i sacerdoti del linguaggio politically correct quando elaborano un’antilingua, tecnica, eufemistica, fatta di sigle incomprensibili (IVG al posto di aborto, GPA al posto di utero in affitto). Impongono un’anestesia del linguaggio per rendere l’opinione pubblica meno sensibile a scelte politiche delicate.
La manipolazione del linguaggio arriva all’adulterazione della realtà quando nega l’esistenza dei sessi e pretende di introdurre la nuova distinzione basata sulla presunta fluidità del genere (“gender fluid”), categoria socialmente costruita per assecondare le ideologie delle frange femministe fallofobiche e gay più estreme. Paranoia, inquisizione, polizia del pensiero e del linguaggio. L’ideologia multiculturalista si fa censura e pretende di imporre formule linguistiche e codici di comportamento paranoici che poi cerca di esportare nel mondo della comunicazione, dello spettacolo e della politica: chi non si adatta è emarginato da tali circuiti.
Con la legge Zan viene praticamente richiesta l’introduzione di veri e propri reati d’opinione. E così inizia l’escalation. Esprimere censure per un comportamento di una persona appartenente a un gruppo etnico diviene immediatamente l’occasione per l’accusa di “razzismo” nei confronti di quel gruppo. Utilizzare termini che hanno connotazione religiosa diventa offensivo per altre fedi: vedii “Buone Feste” anziché “Buon Natale”. Niente simboli religiosi evidenti (croci, presepi), anche se appartengono alla cultura locale.
Qui il problema si sposta in altro campo: l’assenza di alternative, la mancata elaborazione di strategie, culture, linguaggi, il silenzio e la rassegnazione. Dopo il rigetto urge il progetto. Allora l’impressione è che sia una grande battaglia di pensiero combattuta per finalità anche condivisibili, ma con armi del tutto inadatte. Una guerra mondiale fatta con i soldatini. Quasi come se non si voglia davvero vincere, perché le conseguenze, in tal caso, sarebbero troppo scomode, ma solo attribuirsi il merito di stare dalla parte giusta.
Questo articolo è tratto da:
La dittatura delle minoranze, un libro di Francesco Mangiacapra
edito da VeriTas Edizioni, disponibile su Amazon e in tutti gli store: http://bit.ly/Mangiacapra
