Eurovision 2021: l’obesità in Tv elevata a subdolo modello alternativo di bellezza

Anche quest’anno a #EurovisionSongContest2021 vengono imposti artisti obesi.

Con tanti cantanti bravi non è comprensibile la scelta, certamente non casuale, di selezionare quelli affetti da obesità. Proporre modelli sbagliati in queste manifestazioni non è etico e dovrebbe essere vietato dal regolamento perché diseducativo. Tuttavia, siccome fare apologia delle minoranze è una moda che veicola consensi e audience, la scelta populista del grasso in TV a tutti i costi viene preferita a discapito dei gravi risvolti sociali da essa derivanti. Si pensi, per esempio, a quante ragazzine guardando cantanti obese penseranno che essere obesi sia normale.

Accettarsi per quello che si è e piacersi? Va benissimo, a patto che, poi, una bambina, subendo il bombardamento mediatico che equipara grassezza a bellezza, non arrivi a mangiare in maniera errata persuasa dall’equazione “obesità uguale a bellezza”.

Dovrebbe essere chiaro, soprattutto per la fascia più giovane, mentalmente e culturalmente meno strutturata, l’avvertimento che nessuno dovrebbe ridursi a diventare obeso, non per un capriccio estetico ma per questioni di salute. Il rispetto passa proprio dal riconoscere le patologie in quanto tali senza confonderle con espressioni di diversità. I disturbi alimentari non vanno, pertanto, elevati a modello alternativo di bellezza e felicità, soprattutto se si tratta di programmi televisivi a target giovanile.

Sono decenni che l’anoressia è stigmatizzata e bandita dalla TV e dalle passarelle! Il pendolo del marketing, della comunicazione paradossale, della ricerca dell’effetto, ha concluso una sua oscillazione e dall’esaltazione dell’anoressia come modello di stile ed eleganza propone ora l’obesità come icona di bellezza. Magnificare l’esemplare di donna obesa si è oggi di fatto sostituito all’esaltazione dell’anoressia, che insieme alla bulimia costituiscono oggettivamente delle malattie e dei modelli improponibili. Purtroppo, però, il politically correct osta attualmente a molte persone di riconoscere anche nel grasso una patologia altrettanto deprecabile. Il pericolo che si corre prendendo a riferimento un modello estetico eccessivamente nichilista è lo stesso di quando se ne prende uno eccessivamente edonista.

Siamo arrivati a una strana contraddizione: la libertà di scelta tanto agognata può esistere solo fino a quando si rimane in un preciso stereotipo.

L’aspetto realmente discriminante nei confronti dell’obesità è che questi casi umani vengono proposti come fenomeni da baraccone proprio senza rispetto per la malattia stessa e con l’intento di veicolare il buonismo che si tenta di imporre, speculando e lucrando. Bisognerebbe, invece, incentivarli a curarsi. Dannoso è far passare l’ingiusto messaggio di una persona grassa felice, anziché quello corretto, ovvero che i disturbi alimentari vanno risolti (laddove possibile) e non accettati.

Qualche strenuo difensore delle minoranze potrebbe ribattere, ingiustamente, che lo spettacolo non ha a che fare col peso, soprattutto in manifestazioni artistiche. Non è così: lo spettacolo è arte, è bellezza, è armonia ed è castrante sentire una bella voce proveniente da un artista grasso. Ciò non rappresenta una discriminazione, ma un legittimo riconoscimento della bellezza.

Se l’intelligenza fa senz’altro la differenza nelle persone è però la bellezza a costituire statisticamente una chiave d’accesso, soprattutto per le donne ed è giusto che sia così: la bellezza va sempre premiata. Tutte le donne che si amano, si curano e rispettano il proprio corpo: solo così saranno belle!

I grassi potranno beneficiare di pari opportunità nel concorso alle Poste o al Comune ma non in TV, non in un concorso artistico dove l’estetica è parte inevitabile di una performance.

Il pericolo di rimanere incastrati nell’etichetta di “grasso è bello” in quanto inclusiva è una delle falle principali della dittatura delle minoranze. Una lotta per distruggere i rigidi schemi costruiti negli anni passati ci porta a disegnarne altri, mascherati da libertà.

I grassi fingono un’accettazione di se stessi mai sincera, perché nessuno potrebbe andar davvero fiero di certe dimensioni, tranne quelli che si sono già arresi.

L’inganno dell’essere veri per forza, del tutto politicamente corretto e contemporaneo, è una bugia costruita a danno del corpo di persone infelici.

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Perché sono contrario alla legge Zan

Che il contrasto all’omofobia e, in generale, al bullismo e alla violenza siano una priorità, non c’è ombra i dubbio. Il dubbio, legittimo, può esserci, invece, su come sia impostata la legge Zan.

In molti mi avete chiesto perché io sia contrario a questa legge.

Il problema è la narrativa sociale che spesso le minoranze svantaggiate tendono a creare. Si è alimentata una mentalità basata sull’esasperazione dei diritti, proprio da parte delle minoranze che si sono viste incoraggiate a trasformare il loro svantaggio in un vantaggio, a brandirlo come un’arma, a pretendere che gli altri, tutti gli altri, i “fortunati”, si inchinino davanti a loro, si proclamino colpevoli o, comunque, si sentano in difetto, in debito e dunque in obbligo di “risarcirle” indefinitamente.

Il problema è il tentativo di trasformare l’omosessualità in omosessualismo, invocando la solidarietà istintiva di altri consimili. Lo status politico di vittima assicura a chi riesce a ottenerlo una specie di passaporto diplomatico di cittadino “straordinario”, non necessariamente collegato a situazioni di minaccia o reale oppressione. Uno status che comporta, in quanto tale, una serie di benefici, non solo economici, ma anche legali e che di fatto rende le persone diseguali di fronte alla legge. Il cerchio si chiude e chi non vuole guai è costretto ad autocensurarsi e a usare le parole della neolingua. Se si fa finta di glissare sul colore della pelle, sul Paese di provenienza, sulle abitudini di vita, sull’alterità, allora si annienta l’individuo e si rende ogni relazione interpersonale surrettizia e fasulla, perché nella massa indifferenziata, dove nessuno è portatore di identità e diversità, non c’è vera libertà: siamo tutti schiavi.
La legge non può prevedere discriminazioni di serie A e di serie B. Il codice penale già condanna ogni forma di discriminazione: cristallizzare l’omofobia non serve a combattere la discriminazione ma solo a indurre terrorismo psicologico.
La scure arcobaleno del Gender è in agguato pronta a tagliare le gole di chi si macchia di presunta omofobia e poco importa se si tratti di una battuta o un riferimento innocente. Prima si pretende (giustamente) di normalizzare il concetto di omosessualità, ma poi ci si lamenta se questa diventa un normale riferimento quale segno distintivo. È così che in nome del contrasto all’omofobia, si innesca la pressione psicologica opposta, quella che costringe le persone, per timore reverenziale, a sacralizzare la categoria e a cristallizzarla: LGBT vuol dire essere intoccabili, esenti da critiche, opinioni, battute, riferimenti e menzioni. Che nessuno compri Scavolini finché non offre la testa della Cuccarini! È pandemia: aziende, imprenditori, lavoratori e interi marchi sono messi al bando finché non si scusano e ritrattano. Va tutto bene, però, se per una necessità catartica gli stessi gay sui social network inneggiano alla violenza contro personalità dogmaticamente assunte come omofobe e se per farlo utilizzano riferimenti che loro stessi, in altri contesti, riterrebbero discriminatori: così denigrare chi fa uso eccessivo della chirurgia plastica è offensivo e lesivo della libertà dei trans di esibire le tette al vento ai Pride, ma prendere per il culo chi ricorre al bisturi diventa plausibile se utilizzato come motivo per screditare la Santanchè.
Le idee non possono essere espresse senza parole. In tempi di buonismo ecumenico il vero pericolo è l’aggressività inespressa. A forza di reprimere si rischia l’esplosione efferata e violenta. Infatti è la politica dei buoni sentimenti che produce, nell’ombra, sette sataniche e integralismi.
Ci hanno provato i regimi totalitari a esercitare l’epurazione linguistica, e ci provano oggi a esercitare la manipolazione, i sacerdoti del linguaggio politically correct quando elaborano un’antilingua, tecnica, eufemistica, fatta di sigle incomprensibili (IVG al posto di aborto, GPA al posto di utero in affitto). Impongono un’anestesia del linguaggio per rendere l’opinione pubblica meno sensibile a scelte politiche delicate.
La manipolazione del linguaggio arriva all’adulterazione della realtà quando nega l’esistenza dei sessi e pretende di introdurre la nuova distinzione basata sulla presunta fluidità del genere (“gender fluid”), categoria socialmente costruita per assecondare le ideologie delle frange femministe fallofobiche e gay più estreme. Paranoia, inquisizione, polizia del pensiero e del linguaggio. L’ideologia multiculturalista si fa censura e pretende di imporre formule linguistiche e codici di comportamento paranoici che poi cerca di esportare nel mondo della comunicazione, dello spettacolo e della politica: chi non si adatta è emarginato da tali circuiti.
Con la legge Zan viene praticamente richiesta l’introduzione di veri e propri reati d’opinione. E così inizia l’escalation. Esprimere censure per un comportamento di una persona appartenente a un gruppo etnico diviene immediatamente l’occasione per l’accusa di “razzismo” nei confronti di quel gruppo. Utilizzare termini che hanno connotazione religiosa diventa offensivo per altre fedi: vedii “Buone Feste” anziché “Buon Natale”. Niente simboli religiosi evidenti (croci, presepi), anche se appartengono alla cultura locale.

Qui il problema si sposta in altro campo: l’assenza di alternative, la mancata elaborazione di strategie, culture, linguaggi, il silenzio e la rassegnazione. Dopo il rigetto urge il progetto. Allora l’impressione è che sia una grande battaglia di pensiero combattuta per finalità anche condivisibili, ma con armi del tutto inadatte. Una guerra mondiale fatta con i soldatini. Quasi come se non si voglia davvero vincere, perché le conseguenze, in tal caso, sarebbero troppo scomode, ma solo attribuirsi il merito di stare dalla parte giusta.

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Partito Gay? NO, grazie. Prenderlo in culo è una questione privata, non politica

È davvero utile l’istituzione del Partito Gay?

Da omosessuale dichiarato e risolto, ritengo che le priorità per un cittadino come me siano ben altre e che non si esauriscano nei diritti gay. Il vero problema della lobby gay è la pretesa di trasformare l’omosessualità in omosessualismo, il voler trasformare un fatto privato e personale quale è il prenderlo in culo in uno stile di vita assolutista. Questo partito si arroga il diritto di voler rappresentare tutte le persone omosessuali in quanto tali, come se queste non avessero priorità ulteriori e ben più cogenti della propria condizione sessuale e affettiva. C’è gente senza casa, c’è gente senza lavoro, ci sono laureati costretti ad andare all’estero, subiamo continui attacchi alla nostra cultura, alla nostra nazione e per queste persone tutto sembra continuare a ruotare esclusivamente attorno alla propria condizione di omosessuali.

La nascita di questo partito è il grave sintomo del fatto che i gay continuano a volersi autoghettizzare, autoconfinare, automassificare: tra poco per prenderlo in culo avremo bisogno della tessera di partito. Richiedono (giustamente) diritti e libertà ma poi sui social network inneggiano alla violenza contro personalità dogmaticamente assunte come omofobe e per farlo utilizzano riferimenti che loro stessi, in altri contesti, riterrebbero discriminatori. Poco importa se si comportano esattamente mettendo in pratica, quegli stessi metodi, atteggiamenti e modi di pensare fascisti, che loro stessi si propongono di contrastare: lo squadrismo, l’ostracismo, la persecuzione, la messa al bando, il boicottaggio, la propaganda. La filosofia gender esige la creazione di nuove nomenclature, basate sulla ricerca scrupolosa di punti di distinzione allo scopo di creare una comunità intorno alla stessa diversità ed è così che spuntano come funghi le classificazioni di: pansessuale, polisessuale, non binario, agender, bigender, nogender, genderqueer, genderfluid e così via. Si arriva a violentare la grammatica italiana con la stronzata di scrivere “tutt@”  e “tutt*” in luogo di “tutti”, nonostante nella nostra grammatica il plurale maschile copra entrambi i generi. Si pretende che una semplice regola grammaticale sia assunta a discriminazione di genere, patetica forzatura di gran lunga significativa della strumentalizzazione che si sta facendo dell’eguaglianza.

La scure arcobaleno del Gender è in agguato pronta a tagliare le gole di chi si macchia di presunta omofobia e poco importa se si tratti di una battuta o un riferimento innocente. Prima si pretende (giustamente) di normalizzare il concetto di omosessualità, ma poi ci si lamenta se questa diventa un normale riferimento quale segno distintivo. È così che in nome del contrasto all’omofobia, si innesca la pressione psicologica opposta, quella che costringe le persone, per timore reverenziale, a sacralizzare la categoria e a cristallizzarla: LGBT vuol dire essere intoccabili, esenti da critiche, opinioni, battute, riferimenti e menzioni. Ma soprattutto è ora di smetterla con il cliché che essere gay vuol dire avere un debito con la sinistra, un peccato originale che non puoi scontare. Se sei gay, al Gay Pride devi cantare Bella Ciao (motivo per il quale ho deciso di non prendervi più parte). Poco importa poi se i gay che Mussolini mandava alle Tremiti e quelli che Hitler mandava nei campi di concentramento siano numericamente inferiori a tutti i gay vittime di persecuzione in URSS durante il regime stalinista e ai più recenti lager istituiti da Che Guevara. Senza contare, naturalmente, come se la passano oggi (non settant’anni fa!) i gay a Cuba, in Corea del Nord, in Cina, in Vietnam e in Laos, tutti paesi orgogliosamente comunisti. Eh già, perché mentre il tanto pericoloso Fascismo è scomparso ovunque nel mondo da più di quarant’anni il comunismo esiste ancora. Il catechismo della dittatura delle minoranze impone una forma di libertarismo biopolitico, ossia l’idea dell’equivalenza tra desideri e diritti per cui ogni tipo di repressione è sbagliata, è vietato vietare: una madre che dica “no” al figlio che vuole la Barbie, teme di passare per autoritaria, anzi regalare bambole ai maschietti e pubblicare il video su Facebook rende genitori modello; un genitore che osi pronunciarsi contro l’abolizione della festa del papà o della mamma, nella classe di suo figlio, pensa di passare per prepotente, insensibile, egoista. A questo punto scatta allora il ricatto morale: se si è contrari al buonismo, se si è indisponibili al permissivismo e alla munificenza all’ingrosso, si rischia di finire alla berlina, esposti alla disapprovazione di tutti. In nome dell’inclusività a tutti i costi si sacrificano identità e tradizioni, si discrimina la totalità per favorire il singolo.

Lo status politico di vittima assicura a chi riesce a ottenerlo una specie di passaporto diplomatico di cittadino “straordinario”, non necessariamente collegato a situazioni di minaccia o reale oppressione. Uno status che comporta, in quanto tale, una serie di benefici, non solo economici, ma anche legali e che di fatto rende le persone diseguali di fronte alla legge. Il cerchio si chiude e chi non vuole guai è costretto ad autocensurarsi e a usare le parole della neolingua e aderire al Partito Gay. Oggi il peggior fanatismo è esercitato dalla lobby gay contro la maggioranza della comunità: è il fascismo dell’antifascismo. La discriminazione più opprimente e intimidatoria è etico e non sessuale; è quella culturale, politica, ideologica di una “razza eletta” rispetto al popolaccio che sceglie di pancia il sovranismo ed è, perciò, bollato come “naturaliter razzista“. Ecco allora che il nazionalismo, se italiano è un deprecabile sovranismo tendente al razzismo, ma se è europeo diventa un lodevole segno di apertura mentale.

L’inclusione a tutto campo porta al relativismo etico con la conseguenza illogica che, partendo dalla premessa astratta per cui tutte le idee e i comportamenti sono uguali, si arriva alla conseguenza concreta che esiste un solo modo politicamente corretto di parlare, vestirsi e comportarsi: quello che – secondo i vertici del Partito – risulterebbe non offensivo per gli altri! L’uomo occidentale è educato alla scuola del conformismo, piagato da social network, malato di terzomondismo ideologico, al passo col bene, col sorriso e con l’empatia universale: ecco perché l’unico modo per uscire da questo incubo a tinte arcobaleno è con una sana dose di verismo. Imparare a ribellarsi al politicamente corretto, sfidare la disapprovazione generale per usare parole negate è, quindi, un inizio di addestramento permanente al non conformismo, al coraggio.

Una concreta speranza è costituita da quelle generazioni che, cresciute sotto il regime culturale sinistro-salottiero-altoborghese hanno ormai maturato, come me, una sorta di impermeabilità all’influenza conformista di questa ideologia e sono diventate depositarie di una forma di scetticismo di fondo verso la retorica del neo-progressismo.

Quando ci libereremo da questa cappa e da questa cupola ideologico-mafiosa? Qui il problema si sposta nell’altro campo: l’assenza di alternative, la mancata elaborazione di strategie, culture, linguaggi, il silenzio e la rassegnazione. Dopo il rigetto urge il progetto. Allora l’impressione è che sia una grande battaglia di pensiero combattuta per finalità anche condivisibili, ma con armi del tutto inadatte. Una guerra mondiale fatta con i soldatini.

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HITLER, PADRE DELL’ANIMALISMO MODERNO

La Giornata Internazionale del cane si aggiunge al già nutrito anno liturgico della dilatazione dei diritti civili a scapito dei doveri e del senso del dovere. L’animalismo incarna perfettamente il dogma della dittatura delle minoranze secondo cui l’umanità non gode di uno statuto gerarchicamente prevalente nella natura e nell’ambiente, ma, al contrario, la civilizzazione rappresenta in primo luogo una “colpa” e una minaccia per l’equilibrio ambientale, da “espiare” attraverso la riduzione dell’impronta umana sulla Terra. Ne deriva un “animalismo” che, più che promuovere il rispetto per tutti gli esseri viventi, tende a cancellare la superiorità spirituale dell’essere umano. Hitler e altri gerarchi nazisti, noti e studiati prototipi di personalità sociopatiche, coltivavano l’animalismo (peraltro non così estremo come quello di alcuni terroristi attuali). Il Führer adorava la sua cagna Blondi, un pastore (va da sé) tedesco, da cui non volle separarsi nemmeno nel bunker e che condivise con Eva Braun la pozione avvelenata. Pare che la donna, lontano dagli occhi di Hitler, prendesse a calci il cane perché messa in secondo piano rispetto all’animale. Per Hitler un sasso, una pianta, un cane, un uomo, non sono altro che espressioni solo apparentemente diverse dell’unica natura, perché «non esiste alcuna frontiera tra l’organico e l’inorganico». L’uomo è addirittura inferiore agli animali. All’interno di questa visione, che in linea teorica non distingue tra uomini (superiori) e animali (inferiori), accade in verità un ribaltamento. Per Hitler e per molti gerarchi nazisti in verità l’uomo non solo non è superiore, come nella stolta visione biblica, ebraica e cristiana, ma è addirittura inferiore agli altri animali: «L’uomo è indubbiamente il microbo più pericoloso che si possa immaginare». Di qui la credenza di Hitler nella reincarnazione, la sua alimentazione vegetariana, le sue leggi contro la vivisezione degli animali. Poi sappiamo tutti cosa fecero i nazisti alle persone, permettendo esperimenti mortali su uomini, donne incinte, bambini e condannando a morte, con l’eutanasia, malformati e disabili. L’attenzione al cibo, all’ambiente, ai diritti degli animali e alle forme di coltivazione eticamente sostenibili viene spesso erroneamente associata ai movimenti progressisti e di sinistra. In realtà concetti come il presunto diritto che gli animali possiedono intrinsecamente di essere protetti hanno origine proprio dal regime nazista, attraverso una serie di leggi sui diritti degli animali che erano senza precedenti e che esplicitamente affermavano lo status morale degli animali, indipendente da ogni interesse umano. L’idea che gli animali non sono solo creature nel senso organico, ma esseri viventi che conducono la propria vita, dotati di strutture percettive, senzienti al dolore e alla gioia, non è stata elaborata dai contemporanei teorici della liberazione e dei diritti animali, ma da Goering nel 1933. Fu Goering ad abolire la sperimentazione animale, per portarla poi avanti sugli ebrei. La legge tedesca contro la vivisezione del 16 agosto 1933 fu presentata proprio come una risposta alla posizione della Chiesa e dell’ebraismo, colpevoli, a detta del regime, di voler «approfondire e allargare l’abisso tra l’uomo che ha l’anima e gli animali senza anima». Come Hitler anche il terribile Himmler, capo delle SS, che autorizzò sempre gli esperimenti sui prigionieri vivi, si professava adoratore della natura e ripudiava non solo la caccia degli animali per mangiare, ma, richiamandosi agli antichi popoli indogermanici e ai monaci buddisti, condannava persino l’uccisione, involontaria, di lumache e vermi schiacciati per errore dai piedi dei viandanti.Il partito nazista promosse frutta cruda e semi come dieta ideale, proprio come i vegani più scrupolosi oggi. La propaganda nazista indicava la dieta “naturale” come la più appropriata per le persone moderne e laboriose. Le donne venivano educate ai modi migliori per nutrire il “corpo della nazione” e per la gioventù hitleriana era stato prodotto un manuale per una corretta alimentazione in cui si consigliava di mangiare soia al posto della carne. Uno Stato sano e vigoroso richiedeva corpi sani e vigorosi e si pensava che la carne fosse dannosa per la salute sia fisica che morale. I nazisti, esattamente come gli odierni animalisti, si ritenevano moralmente superiori e, come gli animalisti, perseguivano la “purezza”, presupponendo che la vera virtù passasse anche dal ripudio di pratiche apparentemente immonde come il mangiare la carne. È un’ascendenza imbarazzante, certo, ma carta canta. L’amore sviscerato della filosofia nazista per le bestie dimostra che il vecchio detto «chi non ama gli animali non ama gli uomini» non è altro che un’emerita fesseria. Oggi assistiamo non solo a fenomeni di ecoterrorismo che provocano danni ingenti a cose, persone e animali, ma a una propaganda perniciosa che sempre più somiglia a quella dei nazisti, dalla quale scaturiscono odio e pregiudizio, condotte antiumane, razziste e persecutorie, che fanno vittime. In Germania l’ambientalismo ha radici profonde nei movimenti razzisti, xenofobi e antisemiti, poiché si basa sulla celebrazione del sangue e della terra di fine Ottocento e sulla connessione quasi mistica tra la campagna tedesca e l’identità etnica. Lo stesso Partito dei Verdi, quando venne fondato nel 1980, era composto da alcuni esponenti di estrema destra; poi prevalse la componente progressista, ma i Verdi tedeschi non sono mai stati organici all’estrema sinistra com’è accaduto invece in Italia. Tra i leader di certi movimenti estremisti per la protezione dei diritti degli animali, potrebbero giocare ruoli importanti un forte attaccamento emotivo a un particolare ideale, una condizione di profonda frustrazione a causa di umiliazioni e oppressione reali o percepite, oppure uno stato di autoesaltazione e bisogno di identità, gloria o vendetta. Una scarsa flessibilità cognitiva e una bassa tolleranza per le sfumature, che si accompagna alla tendenza ad attribuire errori imperdonabili agli altri. L’incapacità di provare sentimenti di simpatia e compassione per i propri simili e gli innocenti, che soffrono e un certo autocompiacimento nel giocare a essere Dio. Lo specismo moderno inteso come teoria volta ad affermare la superiorità della specie umana sugli animali, viene così considerato dagli animalisti come un pregiudizio equiparabile al “razzismo”o al “sessismo”. Questo costituisce il tappeto rosso su cui accedere ai vertici del governo della dittatura delle minoranze. Da questo punto di vista, si sostiene che chi contrasta lo specismo combatte necessariamente contro il razzismo e il sessismo e, dunque, non può che lottare per una società umana più giusta. Tutto ciò, però, è del tutto insufficiente a un concetto rigoroso di liberazione umana. Stiamo sottovalutando la minaccia, sempre più virale, di un antispecismo che intende privare gli esseri umani di quel valore aggiunto rispetto alle altre specie animali e che incita le masse ignoranti all’antiumanesimo ambientalista. L’ecologismo non si limita a prendere di mira l’umanesimo classico occidentale. Esso è permeato di una mortifera antropofobia. Di questo passo la difesa degli animali e dell’ambiente non sarà più condizione per una vita migliore dell’uomo, ma imputerà l’uomo stesso come un potenziale danno per l’ecosistema. Il punto d’arrivo finale per non collaborare all’inquinamento attraverso l’atto di consumare e produrre sarà la sparizione dell’uomo.

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Questo mese se non sei negro non conti un cazzo

Questo mese se non sei negro, sei automaticamente in torto.

Mentre la pellicola “Via col vento” viene censurata, mentre diverse statue di personaggi assunti come colonialisti vengono abbattute,  scompaiono dai supermercati addirittura i dolci chiamati “moretti”.

Parlare di rigurgiti di razzismo, e farlo così ossessivamente, anche a proposito di episodi che non c’entrano nulla, significa solo scavare fossati di odio, spaccare i popoli, indurre le categorie all’esasperazione, all’autodisprezzo e a forme di razzismo autolesionista. Nella Germania Nazista si rinchiudevano alcune minoranze in campi di concentramento, oggi chi nasconde il proprio egoismo dietro una bandiera arcobaleno pretende di trasformare il mondo intero in un campo di tortura per il maschio bianco eterosessuale.

Più che il busto impolverato di qualche personaggio storico assunto oggi a capro espiatorio, a me spaventa il vero colonialismo, quello odierno, fondato sul negazionismo della realtà oggettiva per privilegiare il politically correct: è questa la morte della ragione con cui sacrifichiamo i nostri interessi e la nostra libertà. Spetta al politically correct ritoccare con macabri intenti revisionistici l’arte e la storia nella loro totalità e la narrativa nella sua particolarità. Non mi meraviglia che questa pericolosa ondata tendente a sputare nel piatto della cultura europea nasce negli Stati Uniti, che non hanno un bagaglio culturale proprio.

Il peggior fanatismo è attualmente esercitato dalle minoranze contro la maggioranza della comunità: è il razzismo dell’antirazzismo. Il razzismo più opprimente e intimidatorio è etico e non etnico; è quello culturale, politico, ideologico di una “razza eletta” rispetto al popolaccio che sceglie di pancia il sovranismo ed è, perciò, bollato come “naturaliter razzista”. Ecco allora che il nazionalismo, se italiano è un deprecabile sovranismo tendente al razzismo, ma se è europeo diventa un lodevole segno di apertura mentale. Il razzismo degli antirazzisti diventa delinquenziale quando identifica il legame identitario e culturale col razzismo che, solo nella peggiore delle ipotesi, è una sua degenerazione.

In modo ignobile e plateale l’insegnamento socio-politico che si vuole dare alle nuove generazioni diventa un codardo affronto alla storia e alla letteratura. Ormai si può pretendere di censurare addirittura le favole – manifestando una volontà di controllo persino sulla fantasia dei bambini – perché sessiste e antianimaliste. Si può imporre lo studio di sconosciuti e insulsi autori di culture primitive, antesignani di qualche attuale minoranza.
Eccola, la manipolazione intellettuale: una contraffazione che tende a deturpare in modo indegno e ingiurioso chi, nell’intelletto, cerca ancora una guida, un sostegno e una solida base. Un revisionismo che è subdolo perché mira a colpire chi è in piena fase di istruzione culturale e sociale, ossia ragazzi minorenni, studenti.

 Si tratta di antifascismo, fascismo o fasciocomunismo? Non cambia poi molto. La volontà di reprimere lo spirito critico, di censurare il pensiero altrui e di cancellare la storia è la medesima. Ed è un serio problema. Il razzismo di un razzista è facile da combattere, perché visibile, esecrabile, spesso caricaturale; certo violento ma facilmente perseguibile dall’opinione pubblica.

Il razzismo dell’anti-razzista è, invece, subdolo, nascosto, ipocrita perché considerato politically correct dall’élite. Esattamente come il fascismo degli antifascisti. Il politicamente corretto è il moralismo in assenza di morale, il razzismo etico in assenza di etica, il bigottismo clericale in assenza di religione.

Una volta nei film Disney le negre erano schiave o cameriere. Ora le fanno fare le padrone. Nel remake disneyano in live action di “Lilli e il vagabondo”, il ruolo della padrona della cagna, diversamente dalla versione originale, è interpretato da un’attrice negra. Ora, ben lungi dal voler essere razzisti, dobbiamo pensare che la storia raccontata nella pellicola è ambientata nel secolo scorso, quando certamente le coppie etnicamente miste non esistevano. La scelta di affidare il ruolo della padrona a una negra è dunque un esercizio forzato di quel politicalcorrentismo sinistro-salottiero-borghese che spinge la nostra società a cancellare e riscrivere la storia. Una tendenza che non ci rende più inclusivi, ma soltanto più ignoranti.

Censurare e riscrivere il passato blinda il presente, i suoi criteri di giusto-sbagliato, vero-falso, buono-cattivo, persino bello-brutto. L’arte prodotta in un ben preciso periodo storico non dovrebbe mai essere piegata ai valori della contemporaneità: il rischio consiste nel perdere di vista il contesto storico di riferimento. Se realmente dovessimo giudicare con i criteri etico-politici di oggi i classici della cultura occidentale allora non si dovrebbe leggere Moby Dick, perché offende gli animalisti, né Pippi Calzelunghe, pedagogicamente pericoloso, né I tre moschettieri, irrispettoso sul fronte delle quote rosa. Finiremmo, così, per trasformare la letteratura in una sterile tassonomia di tematiche più o meno traumatizzanti. Praticamente assistiamo oggi al revisionismo di regime, al sistematico annichilimento della Storia e alla sua radicale svalutazione. Al tentativo di cancellare, distruggere fisicamente o scaraventare nella pattumiera dell’oblio e della pubblica riprovazione, secondo un modello in auge nelle dittature, tutto ciò che in essa dà fastidio a un presente impoverito, intimorito dal confronto, pervaso dal sacro fuoco di processare, giudicare e condannare con i suoi criteri e la sua onnipotente presunzione ogni precedente accadimento, idea, dichiarazione, testo, comportamento. Il risultato di questa revisione moralistica della storia, dell’arte, della filosofia, della letteratura, del costume, oltre l’esito grottesco, è un’istigazione all’ignoranza; il tutto nel nome dell’umanità e della tolleranza.

Fare la guerra a fenomeni del passato con gli occhi ideologici del presente è un errore ed è la manifestazione di questa tendenza ad affermare verità totalitarie, sottratte alla discussione. I fatti vanno storicizzati, non aboliti per decreto.

Tratto da La dittatura delle minoranze, un libro di Francesco Mangiacapra

edito da VeriTas Edizioni, disponibile su Amazon e in tutti gli store:
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copertina

 

 

 

PERCHÈ LE LESBICHE SONO IL CANCRO DEI DIRITTI GLBT

La dittatura delle minoranze impa Copertina (2) In principio i GAY si chiamavano GAY e le LESBICHE si chiamavano LESBICHE. Chi cambiava sesso (spesso per prostituirsi aumentando il prezzo delle prestazioni) si definiva TRANS. Per facilità, e per includere anche i bisessuali, fu giustamente creato l’acronimo GLBT, abbreviazione di “gay, lesbo, bisex, trans”. Una sigla assolutamente esaustiva e rappresentativa di tutte le diversità, dove la G di gay era, giustamente, posta in cima perché proprio i gay sono la categoria più discriminata, più stigmatizzata e, soprattutto, le maggiori vittime di violenza. Difficilmente, infatti, una lesbica viene aggredita per strada e se ciò accade è spesso perché lei stessa ha provocato la lite. Sono ben note, infatti, le risse delle lesbiche all’interno e all’esterno di tutti i locali gay. Lo spirito rissoso delle lesbo-femministe, negli anni, ha spinto le lesbiche (sempre più spesso assise a capo delle associazioni GLBT) a pretendere di far passare la L di lesbiche in cima all’acronimo, con la solita presunzione che contraddistingue le lesbiche e con la consolidata abitudine al privilegio che contraddistingue le femministe. La L delle lesbiche è così passata, da qualche lustro, in cima all’acronico, che nel frattempo è diventato LGBT. Lo stesso concetto di “lesbofobia” di per sé non esiste in quanto già incluso nello spettro dell’omofobia. La radice etimologica del termine “omofobia” fa riferimento, infatti, all’avversione nei confronti di qualunque individuo attratto da persone dello stesso sesso. Questo concetto, ovviamente, non si riferisce soltanto ai maschi omosessuali ma evidentemente anche alle lesbiche. Il termine “lesbofobia“, soprattutto se accostato al concetto di “omofobia” e non di “gayfobia“, è pertanto una inutile e pedissequa ripetizione paradossalmente discriminatoria proprio nei confronti dei maschi omosessuali in quanto principali vittime dell’omofobia. Va da sé che anche i concetti di bifobia e transfobia siano superflui in quanto le persone bisessuali vengono comunque discriminate per la propria componente omosessuale e le persone transessuali restano biologicamente degli omosessuali su cui è intervenuta la chirurgia plastica. Come se non bastasse, i vertici nazifemministi (che in molti casi non sembrano manco donne ma lesbiche fallofobiche prossime ai camionisti) hanno politicizzato interi circoli delle associazioni GLBT senza avere né competenze né attinenza ideologica per potersi interessare di tematiche che una lesbica non può conoscere, come per esempio prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili. Quello delle lesbiche a capo dei circoli delle associazioni gay è un caso sintomatico in cui la convenienza politica non coincide con la salute pubblica e distrugge anni di impegno per l’uso del preservativo: non si comprende il motivo per il quale una lesbica che, letteralmente, non ha mai visto un cazzo (se non quelli di gomma che si avvitano davanti alle apposite mutande che loro usano), debba mettere bocca in questioni che riguardano la condizione di chi con il cazzo e per il cazzo rischia la salute! Non paghe di ciò, le lesbiche a capo delle associazioni della lobby gay, nel tentativo di fare pressioni mediatiche, ogni anno hanno preso ad aggiungere nuove lettere, quasi a diventare un codice fiscale. Siamo arrivati attualmente a LGBTQIA+ che oltre a lesbo, gay, bisex e trans non si fa mancare le etichette queer, intersex e asex, con un “+” in coda a presagio che, nel frattempo, qualcuno sia al lavoro per aggiungere qualche altra lettera. Perché accade ciò? La filosofia gender esige la creazione di nuove nomenclature, basate sulla ricerca scrupolosa di punti di distinzione allo scopo di creare una comunità intorno alla stessa diversità ed è così che spuntano come funghi le classificazioni di: pansessuale, polisessuale, non binario, agender, bigender, nogender, genderqueer, genderfluid e così via. Si arriva a violentare la grammatica italiana con la stronzata di scrivere “tutt@”  e “tutt*” in luogo di “tutti”, nonostante nella nostra grammatica il plurale maschile copra entrambi i generi. Si pretende che una semplice regola grammaticale sia assunta a discriminazione di genere, patetica forzatura di gran lunga significativa della strumentalizzazione che si sta facendo dell’eguaglianza. Neppure la definizione di Gay Pride è salva. Si esige di riferirsi alla manifestazione con il più indefinito e confusionario termine “Pride“, per non ledere la suscettibilità delle lesbo-femministe. Sotto la pretesa ossessiva di un linguaggio “più inclusivo” anche la metropolitana londinese si adegua al politicamente corretto e rinuncia alla classica formula “signore e signori” che precede gli annunci diffusi dagli altoparlanti, sostituendola con l’espressione “salve a tutti“, nel dubbio che qualche confuso si offenda, come annuncia la Transport for London, la quale spera che tutti i passeggeri si sentano i “benvenuti” a bordo dei treni della London Tube. La lobby gay, purtroppo sempre pronta a sfruttare il facile consenso della solidarietà tra minoranze – come se essere gay e lesbiche equivalga a dover difendere zingari e terroristi musulmani – , ha prontamente offerto protezione e addirittura una bandiera agli ASESSUALI, legittimando di fatto l’istituzione di una nuova etichetta. Ciò a dispetto del fatto che l’asessualità non è certamente un orientamento sessuale ma è chiaramente un disturbo sessuale che andrebbe curato e non certo avallato. Siamo arrivati a un punto in cui qualunque persona che una mattina si svegli e si arroghi il diritto di creare un’etichetta basata sul cazzo del proprio cane, tramite la quale esigere diritti, viene ritenuta automaticamente depositaria del diritto di non essere discriminata e trova spazio e potere attraverso la lobby gay. Questi alfieri dell’alfa privativa si inventeranno, tra poco, una categoria di gay a cui fa schifo pisciare dal cazzo, invocheranno a gran voce la creazione dell’etichetta di “apisciatori” e pretenderanno che il sistema sanitario nazionale gli paghi l’intervento per impiantare un sistema che consenta loro di orinare dalla bocca. Istituiranno la giornata mondiale dell”apisciata“, ricorrenza in cui, per supportare la loro minoranza, dovremo pisciare tutti dalla bocca, aggiungendo così un’altra festività nel già nutrito anno liturgico del politically correct. Chiederanno, naturalmente, una legge che li tuteli da chi commette il reato di “apisciofobia“, da applicare a tutti quelli che continuano a pisciare dal cazzo negli orinatoi pubblici, che risulterà essere un atto profondamente discriminatorio nei confronti di chi, suo malgrado, poverino, prova repulsione per il fatto di pisciare dal cazzo. La comunità GLBT, anzi la comunità LGBTQIA+ (mentre scrivo potrebbero aver deciso di aggiungere altre lettere), conferirà loro una bandiera arcobaleno, con i colori del piscio e della bocca ma privata, naturalmente per non molestarli, del colore del cazzo. Lo status politico di vittima assicura a chi riesce a ottenerlo una specie di passaporto diplomatico di cittadino “straordinario”, non necessariamente collegato a situazioni di minaccia o reale oppressione. Uno status che comporta, in quanto tale, una serie di benefici, non solo economici, ma anche legali e che di fatto rende le persone diseguali di fronte alla legge. Il cerchio si chiude e chi non vuole guai è costretto ad autocensurarsi e a usare le parole della neolingua. Dove arriveremo? L’istituzionalizzazione del sentimento di vergogna delle categorie protette ha dato stura a un politicamente scorretto sempre più necessario. Il politically correct ha avuto la stessa intuizione delle dittature: ha compreso che il linguaggio non si limita a descrivere il mondo ma, denotandolo, lo costruisce. Alla stregua delle dittature, ha avuto la presunzione di voler sfruttare l’idea che incidendo sul linguaggio si incida anche sul reale. Esattamente come le dittature ha pagato questa presunzione con il fallimento, non avendo avuto la forza per dare seguito ai cambiamenti che il linguaggio annunciava e avviava né di armonizzarli con gli interessi e la sensibilità delle masse impoverite dalla globalizzazione. Per questo il politically correct ha fallito, rivelandosi uno strumento fallace e controproducente per chi, come il sottoscritto, pur collocandosi in una, se non più, delle minoranze non necessita di conformarsi ai dogmi di un’autocommiserazione omologata né a una cruenta lotta di categoria.

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EX ASESSUALI: le testimonianze dei guariti

L’uscita del volume  La dittatura delle minoranze (edito da VeriTas edizioni) ha aiutato molte persone a uscire dal tunnel dell’asessualità. Per questo, è doveroso dare spazio proprio a queste persone che con la propria voce hanno voluto testimoniare direttamente che dall’asessualità SI PUO’ GUARIRE! Prima di farvi ascoltare le testimonianze nel video che segue, è doveroso fare però alcune precisazioni di natura scientifica. Nell’ipotesi in cui un soggetto manifesti sintomi legati al disturbo asessuale o, addirittura, per condizionamento indotto, si identifichi egli stesso quale “asessuale” è sempre necessario rivolgersi a uno specialista. Le diagnosi e soprattutto le cure fai-da-te non sono mai risolutive, ma al contrario in molti casi acuiscono il disturbo anziché risolverlo. Il disturbo asessuale va trattato esclusivamente da specialisti, quindi la prima figura con cui interfacciarsi è proprio il medico di base. Sarà quest’ultimo, in relazione alla causa patologica, a indirizzare il paziente presso uno psicologo, uno psichiatra, un neurologo, un sessuologo, un endocrinologo, un andrologo, un urologo, un ginecologo o, in casi non eccezionali, anche presso una semplice prostituta o un gigolò. La possibilità di guarigione da questa patologia non è, purtroppo, univoca in quanto dipende dalla natura e dal tipo di disturbo asessuale. Spesso esso è determinato da fattori psicologici e senz’altro risolvibile con una buona psicoterapia (anche se non è esclusa la possibilità di ricaduta), ciò diventa più difficile nel caso di asessualità derivante da disturbi psichiatrici, i quali spesso si protraggono, ad alti e bassi, per tutta la vita. Talvolta, è necessaria anche una terapia ormonale, in caso di disfunzioni. Nell’ipotesi di disturbo asessuale legato a fattori fisiologici la guarigione spesso avviene contestualmente alla risoluzione del problema che determina l’asessualità, come la circoncisione nel caso di fimosi o frenulo breve. Nel caso dei disabili, per esempio, il disturbo asessuale si risolve con la figura del cosiddetto assistente sessuale o anche di una semplice prostituta. In altri casi la patologia è solo ridimensionabile, ma non guaribile. In situazioni più estreme, ma non rare, il disturbo asessuale è irreversibile, soprattutto quando è lo stesso soggetto a non voler prendere atto del proprio disturbo, illudendosi di aver raggiunto la pace dei sensi. Talvolta anche la derisione collettiva può costituire uno stimolo utile per le persone affette dal disturbo asessuale a prendere coscienza della necessità di iniziare a curarsi. Nel caso di asessualità derivante da obesità, per esempio, il dileggio può costituire – come abbiamo già visto – un ottimo stimolo per iniziare una dieta come primo passo verso la risoluzione sia dell’obesità sia del disturbo asessuale. Se, invece, il disturbo asessuale dipende da fattori come, per esempio, il pene piccolo o la disabilità, certamente queste persone vanno aiutate ad accettare la propria condizione, mai derise.
La lobby delle associazioni LGBT nella forzatura di etichettare questi disturbi come orientamenti sessuali, paragona costantemente l’asessualità all’omosessualità,  allo scopo di renderla intoccabile, invocando ingiustamente criteri di libertà e non discriminazione a tutela di questa minoranza. In realtà, volendo fare un paragone più congruo, l’asessualità andrebbe più propriamente paragonata alla pedofilia, essendo entrambi dei disturbi che intaccano sia la sfera sessuale sia quella relazionale. L’asessualità, pur non essendo un reato come la pedofilia, che lede terze persone causando gravi danni e traumi, genera comunque pesanti disturbi e ripercussioni emotive, psicologiche e sociali sia nel soggetto che ne è affetto, sia nell’eventuale partner. Tuttavia, se la società è arrivata, giustamente, a condannare la pedofilia, ciò ancora non è avvenuto con l’asessualità, a causa della minore pericolosità sociale e fisica della patologia, ma soprattutto a causa delle pressioni politiche legate a una ingiusta estremizzazione del senso di politically correct. Pertanto i soggetti affetti dal disturbo asessuale vanno trattati alla stregua di pedofili, ovvero indotti a curarsi onde tentare di ridurre i danni o, se possibile, guarire. Sarebbe bello poterci illudere che gli asessuali si estingueranno, dato che non si riproducono. Purtroppo, però, essi sono tutte creature partorite dall’ignoranza compulsata dalla dittatura delle minoranze e l’ignoranza, si sa, è sempre gravida. Per questi soggetti, che di base non nascono bacati ma lo diventano per condizionamento sociale, probabilmente uno stupro terapeutico e riparatore potrebbe essere l’evento traumatico che consentirebbe una effettiva presa di coscienza circa le pulsioni sessuali. LEGGI ANCHE: “ASESSUALITÀ”: una nuova etichetta nata per giustificare un grave disturbo sessuale LEGGI ANCHE: ASESSUALITA’: le risposte ai dubbi dei lettori LEGGI ANCHEASESSUALITÀ, l’elenco delle sottocategorie aggiornato con le ultime novità

 

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La GRASSOFOBIA non esiste. Non esistono grassi felici, esistono solo grassi rassegnati

256458_4325547977563_1245384975_o (1) Bisogna sfatare il falso mito, politicamente corretto, che sollecitare in maniera cruda e diretta una persona obesa non la aiuti a dimagrire, perché invece questo rappresenta il miglior stimolo. Al contrario, l’avallo e il compiacimento dell’obesità, soprattutto se spacciata per diritto e libertà, la legittima e la radica. Se non fosse stato per i sani stimoli a migliorarsi basati sulla denigrazione dei difetti – ciò che oggi si imputa come “body shaming” – intere generazioni di persone come me sarebbero cresciute continuando ad accettare i propri limiti, anziché sentirsi stimolate a migliorarli. Anche il tanto ostracizzato bullismo (concetto spesso abusato), dovrebbe essere inteso, invece, nel caso dell’obesità, come stimolo esterno utile a trovare la forza per iniziare una dieta. Non si può certamente invocare la debolezza di qualcuno che al bullismo soccombe, magari suicidandosi, per propria predisposizione patologica. Non possiamo favorire la diffusione di modelli sbagliati, solo perché qualcuno è irresoluto e si suicida. Abbiamo il dovere di educare la società, non di lasciarla abbandonata a se stessa spacciando l’obesità per l’ennesima forma libertaria di ribellione al canone imposto. Il vero rispetto per le persone affette da malattie come l’obesità è riconoscere la gravità di questa patologia e non fingere che non esista. Giustificare l’obesità vuol dire non aiutare questi soggetti a uscirne. Combattere contro gli obesi, dunque, è un mezzo per dare maggiore attenzione ai disturbi del comportamento alimentare che, senza necessariamente essere visibili come l’obesità, colpiscono un numero di persone ben più alto. In questo clima di buonismo nasce la “grassofobia“, ulteriore declinazione del “body shaming“, tanto caro al politicamente corretto. Con l’ennesimo espediente semantico del politically correct gli obesi diventano intoccabili e il contrasto all’obesità si trasforma in un mostro, in una malattia sociale, non diversa da xenofobia, razzismo e omofobia. La lobby gay, poi, non può esimersi dal difendere i grassi stringendo con loro l’ennesimo patto di sangue tra minoranze che diventa imperativo categorico cristallizzando il pensiero di qualcuno ed elevandolo a legge insindacabile. Ecco che allora nascono filosofie di vita come “il body positive“, affinché i grassi che non riescono a migliorarsi si possano almeno illudere di essere felici. Si rassegnano a convivere con l’angoscia della distorsione forzata tra quanto di più sacro si ha, la propria identità e l’immagine visibile di sé. Invocano (seriamente), la giornata mondiale contro la “grassofobia“. Si rafforza la fantasia che fingere di essere allegri e puntare sulla presunta e stereotipata simpatia, li renda persone felici mentre in realtà, covano, giustamente, profonda frustrazione verso le persone normali. Può un grassone non rientrare nel “normopeso”, ma sentirsi bene e a proprio agio con se stesso, con gli altri e con il proprio aspetto? Certamente no, si tratta di falsi compromessi dovuti all’incapacità di dimagrire. Nessun grassone vorrebbe restare tale, perché mai un grasso dovrebbe preferire la sua condizione patologica alla salute? L’obesità è una malattia. L’idea che si possa essere grassi e al tempo stesso medicalmente in forma e in salute è un falso mito. Chi è obeso, anche se non mostra i segni iniziali di malattie cardiache, diabete o colesterolo alto, non vuol dire che sia protetto da questo malattie. È una patologia che concorre a provocare gravi disturbi e la morte, costa in termini economici e sociali ed esteticamente è disgustosa. È l’epidemia più diffusa e pericolosa del terzo millennio perché, a differenza delle altre, non viene percepita nel suo reale potenziale lesivo, non solo per chi ne è affetto, ma per la società stessa. Esaltare acriticamente il modello di bellezza grassa significa esaltare una malattia che racchiude in sé quasi tutte le altre patologie, in un mondo industrializzato bisognoso, invece, di ben altri moniti. La società dovrebbe sentirsi eticamente responsabile aiutando questi soggetti, non avallandoli e finendo per acuire e diffondere queste patologie. Bisognerebbe, per esempio, imporre l’educazione alimentare nelle scuole, che sono le prime palestre sociali e vietare i modelli non salutari. Ciò che accade, invece, è l’esatto opposto ovvero si mitizzano le persone grasse con il pretesto di essere inclusivi. La pericolosità sociale di questa propaganda consta proprio nell’ostentazione dell’obesità, proposta ingiustamente come forma alternativa di bellezza e libertà e non già come pericolosa patologia. La lotta all’obesità – necessaria, in una società che persegua il bene comune – passa obbligatoriamente dalla lotta alle persone obese. Dietro l’obesità schermata da problemi metabolici e disfunzioni ormonali, c’è nella maggior parte dei casi solo golosità sfrenata, una scarsa attività fisica e una gran pigrizia, oltre che gravi problemi e disagi psicologici, che andrebbero individuati e, quindi, risolti. Sarebbe necessario, innanzitutto, abolire le politiche di assistenzialismo esercitate ingiustamente a favore degli obesi, che dispensano assegni di invalidità e costituiscono, di fatto, un deterrente alla risoluzione del problema. Quando le proprie scelte vanno a influire negativamente sul funzionamento di una società, allora il peso di un individuo, sia metaforico sia fisico, diventa un problema. Le persone obese sono oggettivamente un costo per il sistema sanitario di un Paese ed essere grassi (per quanto ognuno debba poter decidere cosa fare della propria vita e del proprio corpo) è un problema sia per chi lo è sia per chi deve far fronte a questa condizione. Piuttosto che offendersi per uno stereotipo, sarebbe più saggio non negare l’esistenza di un problema. Accettarsi per quello che si è e piacersi? Va benissimo, a patto che, poi, una bambina, subendo il bombardamento mediatico che equipara grassezza a bellezza, non arrivi a mangiare in maniera errata persuasa dall’equazione “obesità uguale a bellezza”. Dovrebbe essere chiaro, soprattutto per la fascia più giovane, mentalmente e culturalmente meno strutturata, l’avvertimento che nessuno dovrebbe ridursi a diventare obeso, non per un capriccio estetico ma per questioni di salute. Il rispetto passa proprio dal riconoscere le patologie in quanto tali senza confonderle con espressioni di diversità. I disturbi alimentari non vanno, pertanto, elevati a modello alternativo di bellezza e felicità, soprattutto se si tratta di programmi televisivi a target giovanile. Dannoso è far passare l’ingiusto messaggio di una persona grassa felice, anziché quello corretto, ovvero che i disturbi alimentari vanno risolti (laddove possibile) e non accettati. Sarebbe discriminante piuttosto nei confronti della bellezza e di chi fa sacrifici per non ingrassare se si fingesse che essere grassi sia normale. La bellezza, così come la salute, è armonia, misura, equilibrio. Qui sta il vero cuore della questione: è davvero bello dire “io sono così, e vado bene così”? Non annienta forse la spinta al miglioramento? Non cancella l’essenza stessa della bellezza, che è immaginarsi nel futuro differenti da come si è? L’aspetto realmente discriminante nei confronti dell’obesità è che casi umani vengono proposti come fenomeni da baraccone proprio senza rispetto per la malattia stessa e con l’intento di veicolare il buonismo che si tenta di imporre, speculando e lucrando. Soprattutto, sarebbe necessario avere maggior rispetto per le persone che, con sacrificio e pazienza, si impegnano per non diventare grassi. Non si tratta di voler mitizzare la bellezza, di voler essere crudeli o ipergiudicanti. Io stesso ho amici grassi e li rispetto come persone, ma la salute collettiva è prioritaria rispetto alla mortificazione di qualcuno e questa è una responsabilità della società, non una libertà del singolo. Non esistono grassi felici, esistono solo grassi rassegnati. I grassi fingono un’accettazione di se stessi mai sincera, perché nessuno potrebbe andar davvero fiero di certe dimensioni, tranne quelli che si sono già arresi. Il pericolo di rimanere incastrati nell’etichetta di “grasso è bello” in quanto inclusiva è una delle falle principali della dittatura delle minoranze. Una lotta per distruggere i rigidi schemi costruiti negli anni passati ci porta a disegnarne altri, mascherati da libertà. L’inganno dell’essere veri per forza, del tutto politicamente corretto e contemporaneo, è una bugia costruita a danno del corpo di persone infelici.

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25 aprile: MA QUALE LIBERAZIONE? IL FASCISMO È ANCORA VIVO E HA IL COLORE DELL’ARCOBALENO

La dittatura delle minoranze impa Copertina (2) In quel 1945 ci siamo illusi di esserci liberati dal Fascismo ma la vera oppressione ideologica che corrode la nostra presunta democrazia è il regime di dittatura delle minoranze in cui viviamo. Sarà colpa di quel gusto un po’ snob di sentirsi sempre più a proprio agio con una minoranza oppure sarà che le nostre democrazie hanno ancora il ricordo di come le dittature del Novecento abbiano annichilito i gruppi minoritari. Quale che ne sia il motivo, siamo andati troppo oltre, abbiamo ceduto alla dittatura delle minoranze. Parlare di rigurgiti di fascismo, e farlo così ossessivamente, anche a proposito di episodi che non c’entrano nulla, significa solo scavare fossati di odio, spaccare i popoli, indurre le categorie all’esasperazione, all’autodisprezzo e a forme di razzismo autolesionista. Nella Germania Nazista i portatori della svastica rinchiudevano alcune minoranze in campi di concentramento, oggi chi nasconde il proprio egoismo dietro una bandiera arcobaleno pretende di trasformare il mondo intero in un campo di tortura per il maschio bianco eterosessuale. Oggi il peggior fanatismo è esercitato dalle minoranze contro la maggioranza della comunità: è il fascismo dell’antifascismo. Il razzismo più opprimente e intimidatorio è etico e non etnico; è quello culturale, politico, ideologico di una “razza eletta” rispetto al popolaccio che sceglie di pancia il sovranismo ed è, perciò, bollato come “naturaliter razzista“. Ecco allora che il nazionalismo, se italiano è un deprecabile sovranismo tendente al razzismo, ma se è europeo diventa un lodevole segno di apertura mentale. Il razzismo degli antirazzisti diventa delinquenziale quando identifica il legame identitario e culturale col razzismo che, solo nella peggiore delle ipotesi, è una sua degenerazione. È come se identificassimo la libertà con la violenta anarchia o i porci comodi e l’uguaglianza col totalitarismo comunista e il terrore giacobino. Così convinti di essere sempre e comunque dalla parte giusta, loro, gli antifascisti, antirazzisti, antispecisti, anti tutto e anti chiunque la pensi diversamente. Così forti della loro coscienza pulita e del loro indottrinamento da far risultare anche normale armarsi di bastoni e bombe carta, col volto coperto per manifestare il loro dissenso a ogni fattispecie e situazione non gradita. Poco importa se si comportano esattamente mettendo in pratica, quegli stessi metodi, atteggiamenti e modi di pensare fascisti, che loro stessi si propongono di contrastare: lo squadrismo, l’ostracismo, la persecuzione, la messa al bando, il boicottaggio, la propaganda. In quest’ottica, diventano condannabili tutte le tradizioni, i costumi, le norme etico-religiose, persino i criteri estetici sedimentati nella storia della cultura di origine europea. L’Altro è sempre su un piano superiore ed è eticamente preferibile. Si arriva al feticismo dell’allofilia. Tutti gli elementi culturali provenienti da civiltà non occidentali, le culture extraeuropee, le religioni non cristiane, l’Islam, la cultura green, l’ecosostenibile, sono eticamente migliori. Vengono proposti come preferibili, benvenuti, giustificati, tutti i modelli di vita alternativi, l’etnochic, il burger di quinoa equosolidale, il buddismo in primis, il più amato da gay e gente dello spettacolo. Il multiculturalismo si impone di fatto come ideologia aggressiva a tutela delle lobby che rappresentano minoranze (o sedicenti tali): sette religiose, gruppi etnici, femministe, gay. Queste organizzazioni partono da una cultura del piagnisteo, che attribuisce ogni frustrazione delle persone a presunti traumi inflitti dalla società. Una cultura che collega ogni insuccesso del singolo alle discriminazioni subìte storicamente in quanto membro di una minoranza. Il #prayfor impera su tutto. Si fanno guerre alle cannucce di plastica di McDonald’s a colpi di tweet VIP. L’anidride carbonica e i cambiamenti climatici chiamano a raccolta adunanze oceaniche che ci ricordano i sabati di ottant’anni fa, il presenzialismo è il cursus honorum per il distintivo di benemerenza della nuova Gioventù Italiana. Ci si mobilita per le specie animali in via d’estinzione, ma non per i cristiani perseguitati. Se non si è d’accordo con una minoranza meglio restare muti come pesci per non essere tacciati di razzismo e, Dio non voglia, di fascismo. Mute le femministe sugli stupri delle donne bianche da parte dei musulmani; muti i militanti LGBT sulle condanne a morte degli omosessuali in Iran. Muti e inquadrati. Muti sulla politica israeliana nei confronti dei palestinesi, se non si vuole essere immediatamente accusati di antisemitismo. Vogliamo divenire, sì o no, un Paese più civile, come sempre invoca la signora Cirinnà? Il comunismo è morto e quello vero, fortunatamente, non lo abbiamo mai conosciuto in Italia, ma le sue deformazioni psicologiche sopravvivono, eccome! Il perbenismo estremizzato a causa del buonismo imposto è diventato perbuonismo, trasformando i luoghi comuni in luogocomunismo. Del comunismo evolutosi in luogocomunismo è sopravvissuta la parte peggiore: il ricatto morale sistematico, la diffidenza e il malanimo verso i meritevoli e i “fortunati”, la propensione a vedere per partito preso in ogni povero uno sfruttato, prima ancora di informarsi su come stiano in realtà le cose, in ogni fannullone, un incompreso e in ogni delinquente, un poverino che la società ha spinto egoisticamente e insensibilmente sulla cattiva strada. Questa nuova versione peggiorativa e delirante della vecchia etica marxista è stata fatta propria da legioni di attivisti LGBT, di femministe, di sinistronzi; ha conquistato amministrazioni locali, dirigenze scolastiche e sanitarie, élites culturali e intellettuali “impegnati”, quelli con la poltrona fissa in qualche salotto televisivo; si è assisa ai vertici dello Stato e nelle cariche più alte stabilite dalla Costituzione (anch’essa di matrice sinistroide). È diventato vietato essere gay se non voti a sinistra, perché se nasci gay hai un debito con la sinistra, un peccato originale che non puoi scontare. Se sei gay, al Gay Pride devi cantare Bella Ciao (motivo per il quale ho deciso di non prendervi più parte). Poco importa poi se i gay che Mussolini mandava in vacanza alle Tremiti e quelli che Hitler mandava al macero siano numericamente inferiori a tutti i gay vittime di persecuzione in URSS durante il regime stalinista e ai più recenti lager istituiti da Che Guevara e compagnia bella ciao. Senza contare, naturalmente, come se la passano oggi (non settant’anni fa!) i gay a Cuba, in Corea del Nord, in Cina, in Vietnam e in Laos, tutti  paesi orgogliosamente comunisti. Eh già, perché mentre il tanto pericoloso Fascismo è scomparso ovunque nel mondo da più di quarant’anni il comunismo esiste ancora. Impegnati a fiutare ossessivamente ogni traccia di fascismo immaginario stiamo perdendo ogni capacità reattiva di fronte alla sbalorditiva stupidità censoria dell’ideologia del politicamente corretto. Essa non si limita a essere un attacco alla libertà, ma è anche un attentato all’intelligenza, al senso dell’umorismo, allo spirito critico, al senso delle proporzioni e, persino, al buon senso. Si tratta di antifascismo, fascismo o fasciocomunismo? Non cambia poi molto. La volontà di reprimere lo spirito critico, di censurare il pensiero altrui e di cancellare la storia è la medesima. Ed è un serio problema. Il razzismo di un razzista è facile da combattere, perché visibile, esecrabile, spesso caricaturale; certo violento ma facilmente perseguibile dall’opinione pubblica. Il razzismo dell’anti-razzista è, invece, subdolo, nascosto, ipocrita perché considerato politically correct dall’élite. Esattamente come il fascismo degli antifascisti. Proprio l’antifascismo conformista, con il quale molti intellettuali hanno costruito floride carriere, ha favorito la mitizzazione del Fascismo. Cosa mai c’entri il Fascismo nella società di oggi non si sa, dato che il fenomeno fascista vero sarebbe oggi irripetibile e impensabile. L’epiteto “fascista” è quindi un esempio di come abbia avuto successo la tecnica del politicamente corretto per attribuire alle parole significati diversi da quelli originali. Fascista non è più dunque l’aderente a un certo movimento politico in gran voga negli anni tra il 1920 e il 1943, ma qualunque persona che non sia politicamente corretta o che esprima dissenso per qualche idea buonista. È politicamente scorretto, quindi, chi non aderisce alla cultura ancora dominante, sessantottarda, sinistreggiante e cosiddetta antifascista. Per la maggior parte delle persone “corrette”, dunque, l’antifascismo consiste nel tenere in vita nell’immaginario collettivo qualcosa a cui attribuire tutto il male che c’è al mondo in nome di un buonismo ecumenico e del gioco affettato del volersi bene. Qualche mulino a vento contro cui combattere senza respiro, altrimenti non si saprebbe a che santo votarsi per giustificare le proprie posizioni politiche e il proprio pensiero. Più che il busto impolverato di Mussolini sulla scrivania di qualche nostalgico, spaventa il vero fascismo, quello odierno, fondato sul negazionismo della realtà oggettiva per privilegiare il politically correct: è questa la morte della ragione con cui sacrifichiamo i nostri interessi e la nostra libertà. Bisognerebbe fissare una soglia critica oltre la quale una società non è più in grado di erogare diritti a destra e a manca, ma scivola inesorabilmente verso il collasso, l’impotenza e il caos permanente della lotta di ciascuno contro tutti. La nostra società è ridotta ormai a un organismo in lotta per la sopravvivenza, a una nave adibita a trasportare un certo carico di diritti e libertà. Nessuno può pretendere di imporle un onere superiore alle sue forze. Chi lo fa, o è uno sciocco o un criminale, il cui vero e inconfessato scopo è provocare il naufragio. Noi, però, che siamo a bordo, accetteremo passivamente un tale destino? Il tempo delle chiacchiere è finito, ora si tratta di prendere decisioni di portata vitale. Non possiamo farci carico di tutta la miseria del mondo, di tutte le guerre che infuriano, di tutti gli animali che muoiono, di tutte le foreste che scompaiono o di tutti i deserti che avanzano. Se non vogliamo soccombere anche noi. Almeno fino al giorno in cui ci saremo liberati dalle truppe d’occupazione del Politicamente Corretto. Quel giorno luminoso potrebbe essere un nuovo 25 aprile.

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Il paradosso dei sieropositivi che si scoprono buddisti, vegani e salutisti

La fauna dei social network negli ultimi anni ha dato vita a un curioso fenomeno di costume: il paradosso di alcuni personaggi sieropositivi che salgono in cattedra dichiarandosi salutisti, buddisti e vegani. Ciò è dovuto alla circostanza che siamo arrivati – a causa della sieropropaganda innescata dalle associazioni LGBT – a concepire l’idea di contrarre l’HIV non più come un grave rischio per la nostra esistenza ma come una libera scelta, a opera di soggetti che promuovono l’idea che fare sesso senza preservativo costituisca  una libertà e non già un atto socialmente pericoloso per la collettività! Accade così che soggetti mentalmente deviati prima si beccano l’HIV perché non utilizzano il preservativo e dopo sciorinano sul web attitudini e toni da infettivologi, sociologi, sofisti, attivisti e tuttologi pur di divulgare la libertà di fare sesso senza precauzioni. Come se non bastasse, diventano buddisti, vegani, omeopati, erbivendoli e, naturalmente, iniziano a praticare lo yoga. Tanto viver sano avrebbero ben potuto applicarlo in precedenza usando un semplice preservativo. Per quanto cinico possa sembrare, l’AIDS è stato in passato per la lobby gay una preziosa occasione per affermarsi come una minoranza vittimizzata meritevole di legittima attenzione  (il vittimismo è sempre alla base delle rivendicazioni delle lobby di minoranza). Oggi, però, la situazione è cambiata, la lobby gay è più forte e impone di sdoganare anche il concetto stesso di AIDS, esigendo di elevare pure questo a stile di vita. Non è difficile leggere sui social network e nelle app di social dating i proclami di questi professori che accusano di essere retrograda e antiquato chi sceglie di usare il preservativo anziché la amatissima PrEP. Filosofi dipendenti da farmaci antiretrovirali che, sentendosi avanguardisti e progressisti, sono pronti a condannare tutte le tradizioni, i costumi, le norme etico-religiose e persino i criteri estetici sedimentati nella storia e nella cultura. L’Altro è sempre su un piano superiore ed è eticamente preferibile. Si arriva al feticismo dell’allofilia. Tutti gli elementi culturali provenienti da civiltà non occidentali, le culture extraeuropee, le religioni non cristiane, l’Islam, la cultura green, l’ecosostenibile, sono eticamente migliori. Vengono proposti come preferibili, benvenuti, giustificati, tutti i modelli di vita alternativi, l’etnochic, il burger di quinoa equosolidale, il buddismo in primis. L’aspetto paradossale di questi sieropositivi che si reinventano salutisti dopo aver perso la propria salute, è che mentre consumano alimenti biologici, km 0, green, equo e solidale e altre simili fesserie, alla fine pisciano i microrganismi dei loro farmaci antiretrovirali. Non si dovrebbe, infatti, prescindere dal tenere contezza degli effetti dell’inquinamento comportato dalla produzione dei farmaci antiretrovirali. Bisogna considerare che negli ultimi anni le concentrazioni, anche nelle acque potabili, dei residui dello smaltimento industriale stanno crescendo a dismisura, soprattutto in Africa, dove gran parte della popolazione è sieropositiva. I prodotti di scarto dei farmaci vengono sversati direttamente nei bacini acquiferi e sono responsabili spesso delle resistenze batteriche o virali. Praticamente chi assume farmaci antiretrovirali fa danni anche pisciando! Mentre pisciano nei nostri fiumi, laghi e mari questi soggetti si vantano di essere vegani, ecologisti e buddisti. Sarebbe sicuramente più onesto da parte di queste persone evitare di spacciare per ascetismo la loro scelta pratica: la dieta salutista è, infatti, per i sieropositivi una necessità per ridurre gli effetti collaterali dei farmaci che sono costretti ad assumere. Nonostante la propaganda della dolce vita sieropositiva tenti di spacciare i farmaci antiretrovirali per caramelle, in realtà gli effetti collaterali possono essere molto inficianti. Passano da anemia, vomito, vertigini, disordini metabolici, disturbi dell’umore, sonnolenza, alopecia fino ad arrivare alla distruzione dei muscoli con diminuzione della forza e comparsa di dolori, problemi gravi al fegato e ai reni, neuropatie, osteoporosi, epatite, pancreatite, cardiopatie. La tendenza al buddismo è, poi, facilmente giustificata da un’esigenza del rifugio nella religione dovuto alla paura della morte. Nonostante i Soloni dell’associazionismo LGBT tentino di imporre a fuoco e fiamme il pericoloso slogan “tanto ormai non si muore più di AIDS“, in realtà di AIDS si muore, eccome! Qualcosa sta sfuggendo di mano a molte associazioni che, con il pretesto di combattere le discriminazioni verso le persone sieropositive, di fatto stanno innescando una promozione alla diffusione e al culto del sesso senza preservativo e della “dolce vita sieropositiva”. Il mantra spesso ripetuto nelle loro campagne ottiene l’effetto, sempre di più, di distrarre le nuove generazioni dall’utilizzo del preservativo come mezzo di contrasto al contagio. La formuletta U=U, legittimamente creata con l’intento di non discriminare le persone sieropositive in terapia, si è progressivamente trasformata in un abuso dove l’idea (presumibile) di non trasmissibilità del virus è diventata, automaticamente, diritto a non usare il preservativo! Dunque, U=U più che un invito alla non discriminazione (originario, encomiabile motivo del conio di questa formula), è oggi inteso in maniera fuorviante come sollecitazione a non usare il preservativo, proprio perché, spesso, chi invoca questa formula, lo fa con l’intento di dissuadere il partner sessuale dall’utilizzo di precauzioni. In realtà, l’unica formula salvavita che dovremmo tutti imparare e ripetere a memoria è:

BB + CHEMS = HIV

Le ricerche per vaccini e cure vanno avanti da anni ma, concretamente, siamo ben lungi dall’aver sconfitto il virus. Alla lobby gay sieropropagandista, però, fa più comodo innescare nella società l’idea che l’AIDS non sia più un’urgenza e che da sieropositivi si viva benissimo e senza alcuna complicazione. Per diffondere questa menzogna i sieropropagandisti si approfittano dell’ignoranza scientifica delle masse in merito all’AIDS, distorcendo alcune nozioni. Il problema, sia chiaro, non è la libera e insindacabile scelta di diventare buddisti e optare per una dieta vegana ma è pretendere, poi, di salire sul pulpito per dare lezioni di vita, salutismo ed etica rivendicando la superiorità morale del proprio stile di vita. Indubbiamente ciascuno è libero di assegnare alla propria salute un diverso livello d’importanza, di drogarsi e di beccarsi l’HIV. Chi non si preoccupa della propria salute, perché l’ha già persa, non dovrebbe arrogarsi il diritto, però, di discutere di quella altrui né delle libertà dannose per la salute pubblica che, evidentemente, libertà non sono, ma solo pericoli sociali che, con l’arma del politically correct e con lo scudo della discriminazione, si pretende di spacciare per emancipazione.

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